Una Spoon River altogardesana nella mostra “Il ‘900 a Tremosine”
TREMOSINE - Visitabile fino al 24 febbraio, a Tremosine, la mostra di Clara Pilotti «Il '900 a Tremosine. Volti e storie di vita». Cento ritratti ritrovati, cento trame di vita ricostruite. Da non perdere.
Una scatola di latta, ritrovata casualmente in discarica, colma di vetrini fotografici. Da dove viene? Chi ha scattato le fotografie? Perché? E infine: chi sono le persone ritratte?
Ha origine così, da un ritrovamento misterioso, una sorprendente ricerca che ha aperto una finestra sulla comunità tremosinese dal periodo che va dalla prima metà del Novecento al decennio successivo alla seconda guerra mondiale, spalancata su volti e sguardi che raccontano storie e trame di vita.
È una sorta di Antologia di Spoon River altogardesana quella tracciata da Clara Pilotti, insegnante in pensione che ha già indagato a fondo la storia locale con le sue ricerche sulla grande emigrazione negli Stati Uniti dei primi del Novecento. «Quando, quattro anni fa, mi sono stati consegnati quei vetrini – dice – mi sono sentita subito coinvolta».
Le fotografie non hanno voce e la maggior parte delle persone ritratte non può più parlare. Che fare, dunque, per dare un nome a quei visi?
«Cerco aiuto nelle case e i tremosinesi mi accolgono», dice la prof.ssa Pilotti, che coadiuvata da Laura Morandi si lancia in un’impresa impossibile: recuperare la coordinate anagrafiche dei ritratti. «Ho trascorso tre anni nelle case dei tremosinesi – dice – e mentre le foto passavano di mano in mano raccoglievo indizi e segnalazioni. Questo sembra il fratello di Tizio, forse si tratta di Caio….».
Alla fine viene restituita un’identità a cento dei quasi trecento ritratti, scattati tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del secolo scorso, tutti impressi su vetrini che fino ad alcune decine di anni fa erano il «negativo» su cui sviluppare le immagini.
Cento tremosinesi che sono ora i protagonisti della mostra «Il ‘900 a Tremosine. Volti e storie di vita». Su ogni pannello, oltre la fotografia, sono riportati il soprannome (quando possibile), dati anagrafici, attività lavorativa, abitudini, curiosità, aneddoti. Ed ecco che la comunità tremosinese del ‘900 riprende vita: da Elisa Ambra, detta la Pedrüsa, che allevava i figli e curava i campi nell’attesa che il marito, impegnato nella costruzione della Gardesana, tornasse a casa il sabato, a Maria Varina, la Feralèta, soprannome dovuto al fatto che la famiglia del marito aveva avuto una chioderia in Val di Brasa.
La mostra, nella volontà di chi l’ha curata, appartiene alla comunità di Tremosine. Il progetto è stato condiviso dai tremosinesi, nelle fasi di ricostruzione delle identità, progettazione, realizzazione e persino di finanziamento.
L’esposizione, presentata nella sala polivalente di Vesio, è ora visitabile fino al 24 febbraio presso l’Alpe del Garda (solo il venerdì e il sabato dalle 16 alle 19). Poi si vedrà. Certo sarebbe un peccato non trovarle una collocazione permanente. C’è anche un bel catalogo, con i cento ritratti e le relative schede. E i volti ancora senza nome? Ci sono anche alcuni loro, con un appello: «Aiutateci a riconoscere queste persone». La ricerca continua.
Tanti, come ovvio, i tremosinesi che non si sono fatti sfuggire l’opportunità di visionare la mostra. C’è chi ha pianto davanti al ritratto di suo padre o di sua madre, chi ha visto per la prima volta una fotografia del nonno, chi ha riconosciuto la maestra delle elementari. E c’è anche chi, con stupore, ha rivisto sé stesso ritratto in età giovanile. Questa mostra è una sorta di percorso affettivo.
«Questo è mio padre», dice una tremosinese indicando il ritratto di una uomo: «È stata un’emozione profonda vedere questa foto». Anche Laura Morandi, che ha affiancato Clara Pilotti nella ricerca e nel coordinamento, ha ritrovato un suo caro: «Verso la fine di questo lavoro, mentre Clara e io sistemavamo i testi, per caso abbiamo riconosciuto il vetrino con la foto del mio nonno paterno, Battista Morandi, la cui storia è stata inserita fra le cento. Ringrazio questa mostra perché posso ricordarlo, pur non avendolo mai conosciuto».
Le immagini, a loro modo, raccontano una comunità e un’epoca e fanno riaffiorare storie che raccontano di intelligenza contadina, tenacia, inventiva, attaccamento alle terra. Come recita il sottotitolo della mostra, si tratta di «uno spazio culturale affettivo della comunità per la comunità».
[themoneytizer id=”16862-1″]
[themoneytizer id=”16862-16″]
I commenti sono chiusi.