Appuntamento alle 20.30 in Sala Castellani. L’evento sarà accompagnato da brani eseguiti dalla cantante Sara Albertini e seguito da un buffet offerto da Casa del Formaggio Cantina di Bacco.
Riportiamo la presentazione pubblicata dall’autore:
“Dopo avere ispezionato Palazzo Bettoni Cazzago di Bogliaco (nella foto sopra), l’avvocato fiorentino Giovanni Falorni rimase perplesso. Fino a poco più di un mese prima quelle stanze ospitavano la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica sociale italiana.
Curriculum di alto lignaggio, il funzionario era giunto a Gargnano da Roma nel novembre 1943. Un passato militare da Capitano di Fanteria, nella carriera civile aveva ricoperto gli incarichi di direttore capo divisione al Ministero della Pubblica Istruzione e direttore generale dell’Istruzione Elementare. Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia, era a riposo dal febbraio 1944.
Ricevuto dal Comitato di Liberazione Nazionale di Gargnano l’incarico di verificare cos’era rimasto nella ex sede della Presidenza, l’avvocato si mise all’opera. Non partiva da zero ma prendeva le mosse da un precedente inventario, predisposto il 24 aprile da Antonio Andreotti e Benvenuto Montenovi, dipendenti della Presidenza del Consiglio della Rsi.
Raffrontando l’elenco che aveva appena completato con quello del 24 aprile si accorse subito che i conti non tornavano. Le macchine da scrivere erano ridotte da 30 a 3, le stufe da 10 a 3, le scrivanie da 15 a 11. Erano sparite tutte le 50 carte geografiche ed era stata fatta man bassa di tappeti (ne mancavano 22 su 36) e addirittura di zerbini. Un saccheggio.
Ma, minutaglia a parte, nell’intervallo trascorso fra i due rilevamenti ben altro faceva la differenza: erano svaniti quattro arazzi Gobelins del ‘600, tre dei quali definiti “grandissimi”. Parimenti sparito un lampadario in legno dorato per non dire di otto quadri, due dei quali “grandi antichi”, cui si aggiungeva il pezzo più significativo: un’opera di Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, pittore iberico del ‘600 che aveva lavorato per metà della sua vita a Napoli tra il 1616 e il 1652. All’ombra del Vesuvio l’artista fu pure impegnato nella decorazione della Certosa di San Martino, per la quale nel 1637 dipinse la Pietà ricevendo l’anno successivo la commissione per la Comunione degli Apostoli.
Il quadro di Bogliaco era stato portato in una grande cornice da Roma, Palazzo del Viminale, sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri dell’Italia fascista. Assieme a due tappeti di discrete dimensioni e a un tavolino in noce con dorature, quel quadro arredava la “sala d’aspetto del Comandante” Francesco Maria Barracu, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
Nel verbale di Falorni l’opera di Ribera veniva definita «di inestimabile valore» ma il soggetto era erroneamente identificato nel Lebbroso. Già depositato nel suo contenitore, nell’aprile 1945 il dipinto era in attesa del trasferimento a Monza «insieme ad altri quadri di grande rilievo, trasportati in precedenza anche questi da Roma, dagli uffici del Viminale».
A Bogliaco erano già stati messi in cassa anche gli arazzi Gobelins del ‘600 in attesa del viaggio in Brianza dove si doveva stabilire la Presidenza. Poi il buio.
Solo qualche debole e, a suo tempo, mai verificata ipotesi: tutto era già in Brianza prima del 25 aprile? Oppure qualcosa poteva essere finito a Gardone Riviera dove gli Alleati avevano fissato il loro Quartier Generale dopo il loro arrivo il 29 aprile? La sola certezza era che del prezioso materiale, quadro incluso, si erano perse le tracce.
A sollevare dubbi e qualche sospetto è il pezzo principale, l’opera di Ribera appunto, a partire dalla sua corretta denominazione. Il titolo del dipinto è, infatti, Giobbe nel letamaio perché, tra le tante sofferenze sopportate dal giusto Giobbe, messo da Dio nelle mani del Maligno perché ne fosse provata la fedeltà, il personaggio biblico si era visto accollare pure la lebbra: una spiegazione che giustifica l’equivoco della alterazione nella denominazione, semplificata appunto con quella di Lebbroso.
Di quest’opera sono noti, al mondo, sia un autografo che copie realizzate da collaboratori dell’atelier di Ribera. Ovviamente è difficile stabilire se la versione che era a Bogliaco sia da identificare con una di queste tele anche se sarebbe interessante capire con opportune indagini da dove provenisse la versione comparsa in Veneto nei primi anni Duemila nel corso di una gara indetta da una casa d’aste in seguito fallita.
Una traccia tanto labile quanto generica potrebbe essere legata al registro del protocollo dei beni recuperati nella ex Presidenza del Consiglio. Scorrendo la numerazione, alla riga 60 si legge che sia la Civica Pinacoteca di Brescia che la Prefettura erano state sommariamente informate attorno ai “quadri ex Presidenza del Consiglio” il 18 agosto 1945 mentre il successivo 14 settembre una comunicazione all’Intendenza di Finanza riferiva del recupero di tappeti e arazzi presso il Ministero dell’Interno. L’invio dal Garda a Roma di non meglio specificato “materiale archivistico” risultava solamente l’1 ottobre mentre erano numerosi i casi in cui si attestava la spedizione nella capitale di “materiale vario” oltre a un “invio quadri” del 18 dicembre 1945 all’Ufficio di Gabinetto della Presidenza del Consiglio.
Troppo poco. E troppo tardi.
Il saccheggio di Bogliaco non era naturalmente limitato alle opere d’arte ma si estendeva «alle 89 casse di documenti e a quelli non incassati che si trovano sul grande tavolo nella sala dove si riuniva il Consiglio dei Ministri»: molte presentavano segni di forzata apertura, c’erano documenti lasciati in grande disordine con tracce di carta bruciata in un caminetto e varie casse di documenti raggruppate al piano terreno che risultavano «di grande importanza storica e amministrativa. Si tratta di atti e documenti dell’ufficio della Consulta Araldica. Fra quelli che si trovano ammassati sul tavolo grande nella sala delle sedute del Consiglio dei Ministri ve ne sono molti di grande importanza dal punto di vista amministrativo. Sono i fascicoli personali di alti funzionari del Consiglio di Stato e dell’Avvocatura di Stato. Un esame accurato dei documenti in parola potrebbe condurre alla scoperta di atti importantissimi».
L’11 giugno, il Cln di Gargnano inviò copia della relazione di Falorni al Clnp di Brescia e al prefetto, «affinché gli organi competenti decidano sulla opportunità di interessare la Soprintendenza alle Belle Arti per quanto riguarda le opere d’arte e provveda direttamente all’esame ed alla conservazione dei documenti ufficiali della ex Presidenza del Consiglio».
Non deve stupire quanto accaduto in quei giorni a Bogliaco, modesto anello di una lunghissima catena estesa a tutta Europa.
A fronte di oggetti di grande valore inesorabilmente dileguati, in quel traballante 1945 gardesano apparve paradossalmente ben più meticoloso l’impegno per il recupero di alcuni modesti “beni dello Stato”, già concessi in uso a centinaia di funzionari e dipendenti della Presidenza del Consiglio, delle Segreterie e dei vari ministeri della Rsi trasferiti da Roma in Nord Italia.
A mostrarsi scrupolose, se non addirittura assillanti, erano tanto la procedura di assegnazione del materiale quanto il suo recupero dopo la guerra.
(…)
Non mancarono, al contempo, singoli e scoordinati episodi di saccheggio di cimeli bellici o documentali di varia natura, destinati a rimpinguare le collezioni private o semplicemente a fare bella mostra nel salotto di casa: considerazioni, queste, ritenute consuete al termine di un conflitto lungo e sanguinoso. Va da sé che una quota di documenti di un qualche interesse e valore sia stata immessa sul mercato clandestino oppure utilizzata a scopo ricattatorio.
(…)
Infine una riflessione, per spiegare la scelta espositiva di questo libro in cui ho voluto calare eventi e personaggi non solo nei luoghi ma, seppure solo abbozzandola, nella storia dei luoghi in cui i fatti sono accaduti.
Questo, perlomeno, è stato il tentativo nella convinzione che, come sostiene Karl Schlögel, una trattazione centrata sul luogo della storia risulta essere la forma più adeguata di ricostruzione storica, che non è limitata all’intento di conferire una nota di colore locale o di sapidità all’ “arida storia”.
Questo giustifica i costanti riferimenti al contesto gardesano e bresciano, contemporaneo o passato, negli stessi momenti in cui era la Rsi ad avere la penna in mano”.
Bruno Festa