Anpi: diamo la cittadinanza onoraria (postuma) a Massimo Loewy
SALO' - Mentre si avvicina la discussione in Consiglio comunale sulla revoca alla cittadinanza onoraria conferita a Mussolini nel 1924, l'Anpi Medio Garda propone di darla a Massimo Loewy, salodiano ucciso ad Auschwitz: «Diamola a lui e togliamola al duce: un atto necessario, ancor più perché tardivo».
Questa la lettera aperta che l’Anpi ha inviato al sindaco Giampiero Cipani.
«La Giornata della Memoria l’abbiamo dedicata al discorso di Mussolini tenuto a Trieste il 1938, discorso che sottolinea e rivendica la questione razziale come elemento indispensabile della politica nazionalistica italiana di quegli anni. Non si è potuto fare a meno di ricordare Massimo Loewy, nel pomeriggio si erano posati alcuni fiori alla pietra d’inciampo di Barbarano che ricorda il luogo ove abitava prima di essere internato ad Auschwitz.
In quella serata ci siamo resi conto che nessun altro aveva organizzato un suo ricordo. Ci siamo stupiti di come la sua storia sia di così poco interesse per la nostra comunità, così come il mancato ricordo di altri salodiani che ebbero la vita distrutta per la stessa mano, come fu per esempio per Piero Mario Bonetti(*) partigiano salodiano ferito e poi bruciato vivo nel 1944 in un fienile di Mura. Pensiamo che a questo punto sia ora di rimediare a queste nostre sottovalutazioni collettive. Con la presente chiediamo a lei quale rappresentante istituzionale della comunità locale salodiana di farsi parte attiva e di proporre al prossimo Consiglio Comunale una delibera, non solo per revocare la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini recependo in questo modo la mozione presentata dalla minoranza, ma contestualmente di concedere la stessa a MASSIMO LÖWY ( o Loewy) il cittadino salodiano che il 2 dicembre 1943 fu arrestato nella sua abitazione in Barbarano e condotto nella carcere salodiana ove rimase per diversi giorni, fino al febbraio 1944 quando fu trasferito a Brescia e da li al campo di Fossoli, per finire il proprio calvario assassinato ad Auschwitz.
La sua colpa era solo quella di essere nato in una famiglia ebraica. Chi lo arrestò, chi ne sequestrò i beni, chi rifiutò di aiutarlo erano italiani, diversi di loro operanti a Salò… forse salodiani stessi. Riteniamo quindi che sia doveroso nel togliere la cittadinanza a Benito Mussolini concederla ad un nostro concittadino che proprio per le politiche di Mussolini fu mandato a morte certa, e questo avvenne da parte di altri italiani che avrebbero dovuto invece proteggerlo. Un atto di riparazione anche in ricordo della sua famiglia che non fu solo tormentata, ma ridotta ad uno stato di indigenza.
Crediamo sia un atto dovuto e necessario da parte della nostra comunità, ancor di più in quanto un atto di riconoscimento tardivo. Queste due figure – Mussolini e Loewy – sono l’una l’opposto dell’altra. Un riconoscimento all’uno è incompatibile con l’altro. Facciamo come salodiani questa scelta».
Questa la lettera che il presidente Antonio Bontempi ha inviato al sindaco per conto di Anpi Medio Garda.
Come detto, la lettera precede la discussione in Consiglio comunale sulla mozione relativa alla richiesta di revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini, in programma giovedì 13 febbraio.
SCHEDA ANAGRAFICA MASSIMO LOEWY
Massimo Loewy, figlio di Giuseppe Loewy e Elena Tieder è nato in Cecoslovacchia a Moravska Ostrava il 29 settembre 1880. Arrestato a Barbarano di Salò (Brescia). Deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah. luogo di detenzione: BRESCIA carcere luogo di raccolta: FOSSOLI campo destino: Morto/a in campo di sterminio numero di convoglio: convoglio n. 08, FOSSOLI campo 22/02/1944 data di partenza del convoglio: 22/02/1944 data di arrivo del convoglio: 26/02/1944 campo di destinazione: Auschwitz numero di matricola: sconosciuto.
MASSIMO LÖWY ( o Loewy), ebreo di nazionalità germanica, figlio di Giuseppe e O̎ di Tieder Elena, era nato il 27 settembre 1880 a Ostrava Morava (all’epoca città dell’Impero Austroungarico, poi Cecoslovacchia e, dopo l’annessione nel 1938 dei Sudeti al Reich, protettorato Moravo-Boemo); battezzato protestante nel 1905, era coniugato con Berta Meyer, tedesca, di “razza ariana” originaria di Francoforte ed era residente a Gardone Riviera sin dal 1906. Qui gestiva un negozio di articoli da regalo in corso della Repubblica 59. Nel 1936 si era trasferito a Salò, in via Barbarano n ° 84 (ora via Rive grandi 13), in un “fabbricato di piani 4 e vani 12 […] di nuova costruzione” dove aveva aperto un salone di parrucchiere.
Dal matrimonio con Berta Meyer (avvenuto a Francoforte sul Meno nel giugno 1906) erano nate a Gardone Riviera le figlie Carola il 29 settembre 1914 ed Helene il 25 febbraio 1916. Avendo padre ebreo e madre ariana, le figlie erano quindi di discendenza “mista” secondo le leggi razziali dell’epoca . Il primo impatto della famiglia Loewy con le leggi razziali da poco emanate avvenne a fine novembre del 1938, quando alla figlia maggiore, Carola, fu negato il matrimonio con il bresciano Cesare Profeta, cattolico e di “razza ariana”, in applicazione del R.D.L. 17 novembre 1938/XVII N° 1726 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale N°264 del 19 novembre) che vietava i matrimoni misti.
Il podestà di Gardone Luigi Mottadelli aveva scritto al parroco sottolineando che, se il matrimonio fosse stato celebrato, sarebbe stato nullo e aveva informato il prefetto. Il parroco si era rivolto alla Curia; il prefetto, allertato dai Carabinieri, era intervenuto presso il vicario del Vescovo come risulta da una sua nota: ”conferito con Monsignor Pasini che si è impegnato a non celebrare il matrimonio”.
Per Carola il mancato matrimonio significò, tra l’altro, l’impossibilità di passare dallo status di ebrea straniera mista a quello di cittadina italiana e rischiò conseguenze tragiche. La condizione degli ebrei in Italia si aggravò dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana alleata della Germania; si passava dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite. La Carta di Verona (14 novembre 1943) recitava infatti che gli “appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
L’ordinanza di polizia n° 5 del 30 novembre 1943 disponeva che “tutti gli ebrei, […] a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni mobili e immobili devono essere sottoposti a immediato sequestro in attesa di essere confiscati nell’interesse della RSI. […]”.
Loewy Massimo e le figlie Carola ed Helene furono arrestati da italiani a Barbarano il 2 dicembre 1943 e detenuti nel carcere di Salò. All’arresto seguì l’inventario dei beni, il loro sequestro e la successiva confisca. L’arresto di Carola ed Helene, ebree miste e figlie di madre ariana diede origine a un “caso” che portò ad un conflitto tra autorità italiane e germaniche: secondo la legislazione fascista infatti erano deportabili in quanto straniere, mentre gli occupanti tedeschi di solito escludevano dalla deportazione i “misti” anche stranieri. La madre, ariana, intervenne presso le autorità tedesche così che le figlie, con disappunto del questore Candrilli, infastidito dall’ingerenza germanica, furono rilasciate il 21 gennaio 1944. La famiglia era rimasta totalmente priva di risorse economiche dopo la confisca dei beni paterni; le due sorelle il 1 febbraio 1944 presentarono ricorso al capo della provincia affinché fosse loro concesso in uso al-meno qualche mobile ed oggetto tra quelli sequestrati; la richiesta ebbe un lungo iter burocratico e sembrò poter avere un esito positivo solo nei primi mesi del 1945 (era stato infatti accertato nel frattempo che la moglie e le figlie erano nullatenenti e disoccupate); tuttavia quando stava per realizzarsi, il sequestratario Emilio Donati scriveva al questore Candrilli: ”faccio presente la inopportunità di assegnare alla famiglia dell’Ebreo in oggetto un sussidio, in quanto la famiglia stessa è scomparsa fin dal 1° luglio 1944 senza lasciare nessuna indicazione del luogo di trasferimento”.
Intanto in data 1 febbraio 1944 il padre, ancora detenuto nel carcere di Salò, inoltrò al capo della Provincia un’istanza perché gli fosse risparmiata la deportazione: la richiesta dignitosa e sobria, faceva leva sull’età avanzata (64 anni) e sul fatto di essere residente in Italia da 38 anni. Da documenti successivi e da un’informativa del Comune di Salò si evince che il Loewy godeva di una buona reputazione: “pur appartenendo alla razza ebraica, ha sempre ottenuto ottima condotta civile e politica , ed era iscritto al fascio.”
La richiesta di Massimo Loewy non ebbe seguito; trasferito nel frattempo dal carcere di Salò a Canton Mombello di Brescia, il 6 febbraio fu internato a Fossoli. Da lì il 22 febbraio 1944 fu deportato ad Auschwitz; vi arriverà il 26 febbraio con lo stesso trasporto di Primo Levi. L’immatricolazione è dubbia e ne Il libro della memoria di Liliana Picciotto risulta deceduto in luogo ignoto e data ignota. La terribile vicenda di Massimo Loewy si concluse il 3 giugno 1955 quando, dopo la dichiarazione del Tribunale di Brescia di “morte presunta”, il suo nominativo venne eliminato dall’anagrafe del Comune di Salò.
Nel dopoguerra le figlie Carola ed Helene continuarono ad abitare a Salò; la prima morì il 27 marzo 1975, la seconda visse a Barbarano fino al 1992 per poi passare nella casa di riposo salodiana dove morì il 4 febbraio 1999.
La tristissima storia di Massimo Loewy e della sua famiglia è emblematica di alcuni aspetti della Shoah Italiana. Innanzitutto evidenzia le responsabilità tutte italiane nella caccia, arresto e deportazione degli ebrei smentendo il mito secondo cui l’antisemitismo fascista sia stato “all’acqua di rose”: in questo caso addirittura i persecutori italiani entrarono in competizione con l’alleato nazista.
La vicenda permette inoltre di toccare con mano il passaggio dalla persecuzione dei diritti con le leggi razziali del 1938 (in questo caso con la proibizione dei matrimoni misti) alla persecuzione delle vite con l’ordinanza di polizia n°5/1943 della RSI e fa riflettere sul diligente zelo e la meticolosità con cui un gran numero di funzionari e burocrati della RSI, tra i quali il questore di Brescia Candrilli, si attivò per eseguire gli ordini impartiti dai vertici della stessa e collaborare attivamente alla soluzione finale.
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