Covid 19 e inquinamento: nuovo studio epidemiologico nazionale
Ambiente e salute: è il binomio cardine per conoscere cause ed effetti del Covid-19. Per questa ragione è partito uno studio epidemiologico nazionale, cui partecipa anche Arpa Veneto, per valutare se e in che misura i livelli di inquinamento atmosferico siano associati agli effetti sanitari dell’epidemia.
Lo studio, promosso da Istituto Superiore di Sanità (ISS) e Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA), con il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) di cui fanno parte le Agenzie ambientali delle Regioni, tra cui ARPAV, si affianca a PULVIRUS, altra iniziativa nazionale presentata pochi giorni fa e mirata più specificamente a valutare le conseguenze del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra, oltre alle interazioni fra polveri sottili e virus.
“In entrambi gli studi nazionali, che rappresentano l’impegno istituzionale e integrato di tutte le Autorità sanitarie e ambientali dello Stato e delle Regioni nell’affrontare dal punto di vista conoscitivo e operativo questo tema, Arpav è in prima linea” afferma Luca Marchesi, direttore generale Arpav. “L’Agenzia veneta – aggiunge il dg – non solo mette a disposizione i propri dati ma ha un ruolo attivo di contributore scientifico e tecnico”.
Lo studio epidemiologico si baserà sui dati della sorveglianza integrata nazionale COVID-19, coordinata da ISS, e su quelli del sistema di monitoraggio della qualità dell’aria atmosferica, di competenza ISPRA-SNPA. Inoltre si avvarrà della collaborazione scientifica della Rete Italiana Ambiente e Salute (RIAS) per garantire un raccordo con le strutture regionali sanitarie ed ambientali. Saranno realizzati anche approfondimenti su scala regionale condotti con metodologia comune per evitare approcci frammentari e garantire la confrontabilità dei dati. La qualità e rigorosità saranno garantite da un Advisory Board costituito da esperti nazionali e internazionali.
Per approfondire riportiamo qui sotto alcune informazioni tratte dal sito dell’Istituto Superiore di Sanità.
Inquinamento atmosferico e diffusione del virus SARS-CoV-2
Le ipotesi che suggeriscono correlazioni tra le aree a maggior inquinamento atmosferico e la diffusione del virus responsabile della COVID-19 hanno sollecitato la richiesta di pareri all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e stimolato molti gruppi di studiosi a collaborare per esaminare il problema e le possibili associazioni. Tuttavia, l’incertezza che ancora riguarda molti aspetti di questa epidemia richiede quindi una certa cautela e un approfondimento delle eventuali relazioni causa-effetto.
Gli effetti sanitari avversi dell’inquinamento: cosa sappiamo
L’esposizione all’inquinamento atmosferico indoor e outdoor – e in particolare al materiale particellare PM (PM10, PM2,5), agli ossidi di azoto (NO e NO2), nonché all’ozono (O3) – può determinare un insieme di effetti sanitari avversi già ampiamente descritti nella letteratura scientifica accreditata. Nel 2016, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che globalmente sono circa 7 milioni le morti premature all’anno correlate a questo fattore di rischio, con il 91% di questi decessi a carico dei Paesi a basso-medio reddito e relative alle popolazioni delle aree del sud asiatico, sub-sahariane e dell’America latina. In particolare, per la popolazione europea sono state stimate circa 550.000 morti premature.
Inoltre, l’OMS ha dedicato particolare attenzione agli effetti sanitari dovuti ai livelli di inquinamento degli ambienti indoor, determinati principalmente dall’uso di combustibili di bassa qualità per il riscaldamento degli ambienti e dalla preparazione dei cibi, ma anche dall’uso di sostanze chimiche per l’igiene personale e per la pulizia degli ambienti, aromi per la profumazione indoor, pitture, vernici, ecc. Questa componente riveste un ruolo rilevante se si considera che la popolazione trascorre la maggior parte del tempo in ambienti chiusi (abitazione, scuola, lavoro, solo per citarne alcuni).
A livello globale, i principali effetti sanitari correlati all’inquinamento dell’aria indoor e outdoor sono relativi all’aumento delle malattie non trasmissibili (Non Communicable Diseases, NCD), che includono principalmente le malattie croniche del sistema cardiocircolatorio quali le malattie ischemiche del cuore (infarto miocardico, ictus cerebrale), quelle dell’apparato respiratorio, come l’asma, la bronco pneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), che porta a una maggiore predisposizione alle infezioni respiratorie, e il cancro del polmone per esposizioni sul lungo periodo. Più recentemente all’esposizione cronica all’inquinamento atmosferico e al PM2,5 si associano patologie quali il diabete, un ritardo nello sviluppo neurologico dei bambini così come effetti neurologici degenerativi nella popolazione adulta/anziana. Gli effetti a breve termine sono supportati da molti studi dedicati a singole città e/o a aree urbane aggregate e riguardano una ridotta capacità polmonare, aggravamento e complicanze dell’asma e, per esposizione durante la gestazione, un basso peso alla nascita del bambino. L’ampia letteratura scientifica si è anche dedicata a indagare quale sia la popolazione più suscettibile agli effetti dell’esposizione all’inquinamento atmosferico indoor e outdoor. Le caratteristiche di suscettibilità includono principalmente una predisposizione genetica, fattori socioeconomici, età, durata e intensità dell’esposizione, la presenza di malattie preesistenti, come asma, BPCO e fibrosi cistica. Molti studi evidenziano che i bambini, e più in generale la popolazione di età inferiore ai 14 anni, è la più suscettibile agli effetti sanitari acuti delle infezioni alle basse vie respiratorie.
Materiale particellare: quantità ma anche “qualità”
Un altro aspetto da sottolineare è la natura del materiale particellare. Il PM (sia quello emesso direttamente nell’aria, che quello prodotto durante i processi di conversione gas-particelle) è una miscela complessa di inquinanti organici e inorganici, costituito dal materiale carbonioso derivante dai diversi processi di combustione che lo generano (per esempio, nelle aree a intensa urbanizzazione il PM deriva essenzialmente dai processi di combustione di sorgenti mobili e fisse come i veicoli a motore, gli impianti per la produzione di energia), ma anche da un insieme di altre sostanze particolarmente tossiche per l’uomo (microinquinanti inorganici e organici come: metalli, idrocarburi policiclici aromatici, diossine). La composizione qualitativa e quantitativa del PM varia quindi molto in funzione della tipologia di sorgenti di emissione che lo producono. Gli effetti sanitari che ne derivano dipendono non solo dai livelli di concentrazione a cui le popolazioni sono esposte ma anche da molti altri fattori, che includono le sorgenti, le trasformazioni fisiche e chimiche di precursori, il clima, e la specifica situazione locale (orografica e topografica) delle aree urbane e non urbane che ne influenzano la “qualità” e la composizione.
Vivere in aree urbane dove l’inquinamento atmosferico è elevato incide sullo stato di salute generale della popolazione, come dimostrano gli studi di numerosi gruppi di ricercatori scientifici nazionali e internazionali. La popolazione di queste aree presenta alcuni profili di salute particolari, come registra anche il sistema di sorveglianza PASSI dell’ISS. Dai dati PASSI, emerge che nella popolazione adulta che vive nelle città metropolitane è maggiore la prevalenza di persone con sintomi depressivi, con diagnosi di malattia cronica respiratoria (bronchite cronica, enfisema, insufficienza respiratoria o asma bronchiale), diabete e tumore. Questi eccessi risultano statisticamente significativi anche tenendo conto delle differenze nella struttura per età, genere e caratteristiche sociali di chi vive nelle metropoli, rispetto a chi vive in altre aree urbane o rurali del Paese. Gli stili di vita hanno sicuramente un peso nel determinare questo quadro e fra i residenti nelle città metropolitane si osserva una maggiore quota di sedentari e fumatori.
L’Agenzia Ambientale Europea (EEA) ogni anno produce un report sul Burden of Disease dell’inquinamento atmosferico in Europa in base ai livelli di concentrazione dei singoli inquinanti misurati (PM2,5, NO2 e O3) dalla rete di monitoraggio dell’aria presente in ciascun Paese (concentrazioni variabili anche in funzione delle condizioni meteorologiche peculiari registrate ogni anno, oltre al numero e alla qualità di funzionalità delle centraline). Nel report 2019 (dati riferiti al 2017) l’EEA stima per l’Italia, per esposizione a PM2,5, circa 60.000 morti premature. Va ricordato che le misure delle postazioni di monitoraggio dell’aria sono finalizzate alla corretta gestione dei territori per l’individuazione di possibili soluzioni di riduzione dell’inquinamento e rappresentano solo una misura indicativa dell’esposizione, considerando inoltre che ormai la popolazione trascorre la maggior parte del tempo in ambienti indoor.
Infezione da SARS-CoV-2 e inquinamento: quali associazioni?
In merito alla possibilità di un’associazione diretta della diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2 con le aree a elevato livello di inquinamento atmosferico è necessario porre una particolare cautela, trattandosi di un’infezione virale, sottoposta a meccanismi di trasmissione attraverso il contagio diversi da quelli che caratterizzano la diffusione dell’inquinamento atmosferico. In Italia, l’ipotesi di un’associazione è stata avanzata in virtù del fatto che aree come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, dove il virus ha presentato la maggiore diffusione, si registrano generalmente le maggiori concentrazioni degli inquinanti atmosferici misurati e controllati secondo quanto indicato e prescritto dalla legislazione di settore (DLgs 155/2010).
Tuttavia, la diffusione del virus si è presentata attraverso focolai circoscritti all’interno di zone della macroarea di appartenenza (pianura padana) sottoposta a valori di inquinamento atmosferico elevati e piuttosto omogenei; altre aree a forte inquinamento atmosferico, anche se prossime, sono rimaste inizialmente escluse e interessate, solo successivamente, con minor forza dalla contaminazione del virus. Si osserva, inoltre, che a seguito delle disposizioni governative, la ridotta mobilità delle persone e la chiusura di molte attività produttive, ha portato a una progressiva e significativa riduzione dei livelli di inquinamento dell’aria (PM10, PM2,5, NO2, benzene).
Va considerato che le aree dove il virus ha evidenziato l’impatto più elevato, sono le aree italiane sia ad elevata densità di popolazione sia a più alta produttività del Paese. In questi territori sono presenti il maggior numero di aziende con vocazione e crescita internazionale che hanno continui e frequenti rapporti con Paesi stranieri (in particolare Stati Uniti, Cina e Federazione Russa), con conseguente alta mobilità dei lavoratori. Infatti, molti approfondimenti epidemiologici in corso per studiare e comprendere come il virus sia entrato e si sia diffuso nell’area evidenziano l’importanza della componente legata ai rapporti di lavoro internazionali e il conseguente contagio diretto tra persone, oltre all’iniziale diffusione del contagio in strutture sanitarie (ospedaliere e residenze sanitarie assistite, RSA), che ha agito quale forte moltiplicatore dell’infezione. Le misure di minimizzazione degli spostamenti e di distanziamento sociale che sono state adottate stanno mostrando tutta la loro efficacia, evidenziando ancora una volta il meccanismo preferenziale di contagio della malattia COVID-19.
Lo studio di eventuali relazioni di causalità tra la diffusione del virus e l’inquinamento atmosferico, in particolare di PM (PM10 e PM2,5), necessita quindi di essere attentamente analizzato, approfondendo la conoscenza di eventuali fattori confondenti che possono suggerire spurie associazioni causa-effetto.
In sintesi, la complessità del fenomeno, insieme alla parziale conoscenza di alcuni fattori che possono giocare o aver giocato un ruolo nella trasmissione e diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, rende al momento molto incerta una valutazione di associazione diretta tra elevati livelli di inquinamento atmosferico e la diffusione dell’epidemia da COVID-19, o del suo ruolo di amplificazione dell’infezione. Appare dunque necessario pianificare e realizzare studi caratterizzati da adeguati disegni e protocolli di indagine, e corredati da modelli di analisi che consentano di comprendere il ruolo giocato dalle molteplici variabili coinvolte nel fenomeno, effettuando anche un’analisi comparativa su scala più ampia quale quella europea e internazionale.
Un elemento di sicuro approfondimento potrà essere rappresentato dal ruolo dell’ambiente indoor/outdoor nel suo complesso nel determinare lo stato di salute generale della popolazione, in particolare quella residente nelle aree urbane, e come questo possa aver influito sulla gravità degli esiti dell’infezione da SARS-CoV-2. Per esempio, l’analisi dei decessi su un ampio campione di casi effettuato dall’ISS ha mostrato come la mortalità per COVID-19 sia stata elevata in soggetti che già presentavano una o più patologie (malattie respiratorie, cardiocircolatorie, obesità, diabete, malattie renali, ecc), sulle quali la qualità ambientale indoor e outdoor e gli stili di vita, in ambiente urbano, possono aver giocato un ruolo.
Uno studio che l’Università di Harvard ha presentato come pre-print, fornisce alcuni spunti di riflessione ma si basa su indicazioni parziali e presenta ampie incertezze ancora da risolvere (come gli autori stessi descrivono nei supplementary materials). Tra queste, sicuramente la modalità di conteggio dei decessi per COVID-19 ancora non completamente chiarite e standardizzate nonché la stima delle concentrazioni di PM2,5 sul territorio degli USA che si basa sull’applicazione di modellistica che deve tener conto delle misure effettuate nelle postazioni fisse, le quali non hanno una distribuzione omogenea sul territorio. Questo fattore introduce un’incertezza sulla rappresentatività spaziale delle stime del modello e gli stessi autori evidenziano una ampia variabilità dell’accuratezza del modello per aree geografiche diverse. Il lavoro dei ricercatori di Harvard mostra dunque alcune carenze metodologiche importanti, tra le quali non ultima la mancanza di controllo per autocorrelazione spaziale sia della esposizione a PM atmosferico sia del contagio.
La diversa distribuzione spaziale delle postazioni di misura dell’inquinamento atmosferico che deve tener conto dell’alta disomogeneità dei territori (aree metropolitane, rurali, industriali, montane, costiere), come avviene anche in Italia, rappresenta un elemento di incertezza nella stima dell’esposizione inalatoria al PM2,5 indoor e outdoor della popolazione. La complessità del fenomeno necessita quindi di ulteriori approfondimenti per completare e risolvere le incertezze ed eventuali relazioni spurie, la covarianza tra variabili, il ruolo dei confondenti e dei modificatori di effetto, ecc.
Risorse utili
In merito all’argomento la comunità scientifica ha espresso la sua opinione pubblicando, principalmente in rete, una serie di contributi alcuni dei quali di seguito indicati e dai quali sono tratti elementi riportati e discussi in questo documento:
- l’articolo “Inquinamento atmosferico e COVID-19”, pubblicato il 13 aprile 2020 dallo Steering Committee del progetto CCM RIAS sul sito scienzainrete.it
- il documento “Informativa sulla relazione tra inquinamento atmosferico e diffusione del COVID-19”, pubblicato dalla Società Italiana di Aerosol (IAS) il 20 marzo 2020
- l’articolo “Valutazione del possibile rapporto tra l’inquinamento atmosferico e la diffusione del SARS-CoV-2”, pubblicato il 17 aprile 2020 su Epidemiologia&Prevenzione
- l’articolo “Le pubblicazioni scientifiche su COVID-19 tra urgenza e necessità” pubblicato il 28 aprile 2020 sul sito scienzainrete.it
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