Il libro, edito dall’associazione Il Sommolago nel 2019, riporta alla luce le carte di undici processi, trascritte integralmente, su prepotenze, violenze, risse all’osteria, furti, coltellate, archibugiate e omicidi in una società di cacciatori, pastori, boscaioli, carbonai e banditi che, sotto i Lodron, vivono una vita grama, appena oltre la sussistenza. Là dove anche i preti danno esempi poco edificanti.
In 432 pagine, le carte di 11 processi trascritte integralmente su prepotenze, violenze, risse all’osteria, furti, coltellate, archibugiate e omicidi in una società di cacciatori, pastori, boscaioli, carbonai e banditi che, sotto i Lodron, vivono una vita grama, appena oltre la sussistenza. Là dove anche i preti danno esempi poco edificanti.
Curato da Mauro Grazioli, Franco Cagol e Samuele Rampanelli, il volume è introdotto da tre saggi: “Affinché simili enormi delitti non restino impuniti”, “I processi in criminale della giurisdizione di Lodrone. Produzione, tradizione e conservazione nella prassi dei notai-cancellieri” e “La giustizia criminale della Valle di Vestino. Pratiche, amministrazione e diritto”, che illustrano compiutamente il teatro in cui si svolgono gli avvenimenti.
In Appendice ci sono l’elenco dei fascicoli processuali rilevati nel Cantone di Condino nel 1810, ora conservati presso l’Archivio storico del Comune di Trento, e l’“Indice dei nomi delle persone e dei toponimi”, curato da Gianfranco Ligasacchi.
Sulla pagina Facebook dell’Asar troviamo gustose anticipazioni, che riportiamo qui sotto.
L’osteria era proprietà del comune, che provvedeva ad affittarla di anno in anno al migliore offerente. L’appaltatore, controllato da due sovrastanti eletti a garanzia dei clienti e della stessa vicinia, era «obbligato vender il pane e il vino che le sarà di mano in mano consignato, giusto il calmedro che li verà fatto dalli soprastanti della caneva, fedelmente senza fraude alcuna». Gli era però concesso «far fogo, dar da mang<i>are e cocinar ciò che li parerà senza corispondenza di cosa alcuna alla comunità».
Un «servizio pubblico» dunque, con norme atte a garantirne la regolarità e il profitto, nonché a fronteggiare «il dilagare di una delinquenza caratterizzata da omicidi, furti, ferimenti, sequestri di persone facoltose e taglieggiamenti di mercanti». In un paese poteva esistere una sola osteria. Nessuno poteva ingiuriare l’oste con parole o fatti e così viceversa; le pene erano graduate in base al ruolo istituzionale della persona offesa.
Oltre a richiamare le norme relative alla dottrina cristiana, in occasione della quale l’osteria doveva rimanere chiusa per porre freno a quanti «cercano con ogni modo possibile di disturbarla, con grave danno e scandalo universale», lo statuto di valle comandava poi «di non dare alloggio o da mangiare a persona alcuna armata, anche se non sospetta, così terriera che forastiera», prima che questa avesse consegnato le armi.
Inoltre che l’oste non poteva dar cibi «alli figli di famiglia fuorché nel caso di necessità più che alla summa di troni uno», con proibizione «di tenersi commerzio né meno nelli giochi, sotto la pena di lire cinque planet per cadauna volta e per ciascun figlio di famiglia». Una norma del regolamento di Magasa aggiungeva poi che il canevaro «non doverà mantenere combricole nell’ostaria di sorte alcuna».
Ma, come mostrano i processi, alle regole e ai proclami non seguono i fatti. Gli eccessi delittuosi sembrano anzi rientrare in una sorta di periodica fatalistica.
Alcuni fatti esemplari:
1) «Adì 11 luglio 1713, Turano. Domino Giovanni Andrioli, giurato al governo della spetabile comunità di Turano, denontia all’illustrissimo fisco di Lodrone come il giorno di oggi è stato morto Bertolamio, figliolo di domino Nadal Regetti di Moerna nella ostaria di Turano a hore 22 incircha, cioè tiratali una schiopitata da un forestiero».
2) Il 13 agosto 1730 «Domenec Andrioli dà parte alli giurati che nel ostaria Domenego figliolo di Francesco Rizzo» dopo aver giocato «alla balla» con altri giovinastri, ha «messo mano a un cortello disfodrato et Francesco filio di Giovanni ha messo mano una pistola a can calado contra l’osta», la quale avendo intimato loro di smettere di bere e di andarsene dal suo locale era stata «strapazzata col dirghe che [le donne] hanno il diavolo dosso e che era una vaca et altre parolle, ledendo il suo onore e quello del marito.
3) A Cadria Domenico Mafei di Armo è «ferito nela testa con balini da lepre per causa del gioco della morra in occasione della festa di San Lorenzo» del 1737 cui partecipano anche alcuni cacciatori abitanti alla Costa di Gargnano.
4) Una rissa con parole ingiuriose, bestemmie e armi proibite avviene nella seconda festa di Pentecoste del marzo 1746 nella «caneva» di Giovanni Grezzini, di Armo.
5) Ai primi di gennaio 1747, nell’osteria di Persone, dove era capitata una compagnia di Moerna, si ricorre all’uso delle armi contro un certo Simon Grandi quondam Paolo» per il danneggiamento di un esemplare «di chalisoni», uno strumento a corde, simile ad un liuto.
6) Un omicidio avviene il 20 gennaio 1787 nell’osteria di Bortolo Venturini, «oste, ossia canevere di Magasa», allorché Andrea Tonolli, dopo aver giocato alla morra, litigando per una mossa di vino e reciproche offese, pone mano al coltello e provoca la morte dello zio Antonio Zeni, il cui cadavere viene poi ispezionato dal chirurgo.
Adattamento da M.G., Affinché simili enormi delitti non restino impuniti, pp. 13-44.