Milano, ultima notte prima di andare in pensione per il poliziotto Franco Amore che non ha mai sparato un colpo in vita sua, ha una giovane moglie, Viviana, di cui è innamoratissimo, una figlia già grande avuta dalla prima moglie, un amico e compagno, Dino, una vita di onorato servizio. Ma qualcosa è accaduto nei dieci giorni precedenti e proprio in quell’ultima notte la situazione lo porterà a rischiare di perdere tutto.
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La Torre Velasca, il Duomo, e via via, con uno sguardo morbidamente lento, l’abbraccio dello skyline mozzafiato di una Milano notturna, ripresa dall’alto ma in modo da poter comunque osservare le autovetture in movimento, minuscole come modellini, i tram illuminati, l’intrico di binari della Stazione Centrale, lasciando intuire la vastità della città che ruota intorno al suo centro.
I titoli di testa di “L’ultima notte di Amore” ci conducono subito nel territorio noir, con una colonna sonora in cui i sospiri diventano ritmo, in cui gli occhi si spalancano di meraviglia su questa città moderna, scintillante, apparentemente rassicurante, se vista da quella distanza. Le scritte rosse, i crediti cubitali, che compaiono sopra le immagini, paradossalmente non si notano, tanto lo sguardo è attratto da questo volo sulla metropoli.
E poi, con un movimento elegante e virtuosistico, la macchina da presa ci fa entrare nel quadro, si avvicina ad una finestra, ormai siamo dentro, catturati, tutto quello che accadrà intuiamo che ci stupirà, siamo pronti a farci condurre nella storia.
Appunto per non rovinare questo stupore poco si può anticipare di una trama in cui ogni tassello del puzzle si ricompone con precisione, in cui si rispettano le regole del genere: flashback, soldi, morte, un protagonista perdente e innamorato, riuscendo a rinnovarle, rinfrescarle, mantenendo una tensione che non si attenua mai dall’inizio alla fine.
Andrea di Stefano porta il polar in Italia, lo rende autenticamente italiano e allo stesso tempo internazionale. Lo gira per scelta interamente in pellicola 35 mm, con un cast in cui spicca naturalmente il protagonista, Pierfrancesco Favino, intorno a cui, per stessa ammissione del regista, è stato costruito il personaggio, ma che mostra un affiatamento, un’armonia, in cui nessuno sovrasta l’altro e tutti concorrono alla riuscita di una sceneggiatura impeccabile.
Favino è nel suo elemento, intenso, mai sopra le righe, in sintonia completa con i coprotagonisti, da Linda Caridi, che interpreta la moglie Viviana, a Francesco Di Leva che veste i panni dell’amico e compagno di lavoro Dino.
La Caridi sfoggia una naturalezza rara negli sguardi complici con Favino, in un ruolo chiave, donandosi al personaggio senza risparmiarsi, Di Leva, con una manciata di scene, illumina il suo Dino, poliziotto semplice che fa una vita dura, Antonio Gerardi si dimostra caratterista di rango incarnando, senza renderlo stereotipato, il self made man, il cugino che parla in calabrese stretto e sguazza in affari al limite (o al di sotto) della legalità, ma uno dei pregi maggiori del casting è l’attenzione a ciascuno, perfino ai personaggi minori, con volti reali, come se ne vedono davvero nelle questure, nelle strade, ogni giorno o meglio, ogni notte.
Favino lascia spazio agli altri pur restando sempre, in ogni momento, il cuore della storia, un uomo del Sud perfettamente a casa, dopo tanti anni di lavoro e di vita nella città del Nord, che con gesti minimi tradisce l’imbarazzo di trovarsi in situazioni che lo mettono a disagio o esprime la forza del suo carattere poco incline a cedere a compromessi su alcuni valori, pur essendo ormai abituato a piccole concessioni, un uomo comune in una situazione eccezionale capace di farci immedesimare nella sua umanità.
Nessuna caricatura, né dei cinesi né delle forze dell’ordine, corrotte o meno, nessuna forzatura; dall’inizio alla fine si capisce che sopra una solida trama è stato tessuto un filo di improvvisazione da parte di professionisti autenticamente ispirati, che infonde spontaneità e verità a tutto il lavoro.
Montaggio serrato, la giusta scelta delle musiche, inquadrature che alternano primi piani ravvicinatissimi a panoramiche di una produzione dal respiro internazionale, come nella scena centrale sulla tangenziale, con decine di mezzi e comparse, un film quasi interamente girato in notturna con un lavoro ammirevole del direttore della fotografia e di tutto il reparto tecnico, un’attenzione alle location che rendono Milano coprotagonista della pellicola, ideale ambientazione di storie criminali, il risultato di tutto ciò è un armonioso, amorevole lavoro collettivo che non allenta mai la suspence fino alla fine, un film che ha nel DNA il destino di diventare un classico.
(Camilla Lavazza)