Il film è un programmazione alla Multisala King di Lonato e al Cinecentrum di Torri del Benaco fino a mercoledì 20 marzo. Il 16 aprile sarà inoltre in programma anche al cinema Cristal di Salò.
Trama
La famiglia Höss vive in una villetta circondata da un curatissimo giardino fiorito con al centro una piscina per il divertimento dei bambini. A volte tutta la famiglia si reca a nuotare nel vicino fiume, in mezzo al verde dei boschi, ogni giorno il padre esce per lavorare, i piccoli vanno a scuola, la madre si dedica al giardinaggio.
Un piccolo e tranquillo angolo di paradiso, se non fosse che il muro perimetrale è il confine del campo di concentramento di Auschwitz, di cui il capofamiglia è l’efficiente comandante.
Critica
Quando pensiamo all’orrore dei campi di sterminio nazisti difficilmente immaginiamo l’esterno e, anche quando succede, ricordiamo le fotografie o i filmati dei vagoni ferroviari che trasportavano i prigionieri in un paesaggio brullo e quasi marziano, lontanissimo dalla quotidianità, un’infernale “terra di Mordor”.
Centinaia di film e documentari ci hanno in qualche modo paradossalmente “abituato” a quello che potremmo aspettarci, ed ecco che Glazer invece ci spiazza, fin dall’inizio del film, raccontando la perdita di umanità degli aguzzini senza mai mostrare direttamente le atrocità compiute sulle vittime, tuttavia perennemente presenti tramite i rumori provenienti dal campo di cui si intravedono solo le oscene architetture di morte che svettano oltre il muro.
In Francia, vicino a Limoges, esiste una cittadina chiamata Oradour-sur-Glane, che venne distrutta dalla furia dei nazisti alla fine della seconda Guerra Mondiale. Tutti gli abitanti trucidati, il paese dato alle fiamme. La Francia ne ha fatto un memoriale e, per accedervi, bisogna scendere sottoterra per poi sbucare alla luce, tra le rovine.
Glazer opera qualcosa di simile all’inizio del film, immergendoci in una delle più lunghe scene con schermo completamente nero che si siano mai viste al cinema. Prima abbagliati, poi confusi, cominciamo ad abituarci al buio, in un disagio crescente, avvolti solo dall’inquietante musica di Mica Levi. Non sbuchiamo però nell’immenso campo, bensì nello spazio esterno che lo racchiude, scoprendo che l’indicibile inferno creato dagli uomini era circondato dallo splendore stridente della natura.
Inaffrontabile è il pensiero che delle persone potessero riuscire a convivere, senza alcun rimorso o moto di coscienza, accanto ai campi di sterminio; che le donne, come sciacalli, osassero appropriarsi degli abiti migliori, delle pellicce, perfino del rossetto, sottratti ad altre donne destinate allo sterminio.
“La zona d’interesse” riesce a raccontare la banalità, anzi, la meschinità del male, nel semplice gesto di uscire dal cancellino di legno di casa per andare al lavoro (e ben sappiamo che tipo di “lavoro”), nel muto terrore delle serve-schiave che scivolano lungo i muri cercando di non commettere errori fatali, nella cenere, di cui possiamo intuire la ripugnante provenienza, sparsa per concimare i fiori.
Contribuiscono ad accrescere l’orrore alcuni perturbanti dettagli (il rituale della chiusura della casa la sera, la scatola dei denti, i sogni virati in “negativo” dei figli).
Si è molto parlato del virtuosismo della tecnica di ripresa ottenuta attraverso decine di telecamere manovrate da remoto, in modo da lasciare gli attori muoversi da soli nello spazio del giardino e della casa, una tecnica che ricorda in qualche modo il celebre “esperimento di Stanford” (quello in cui due gruppi di volontari interpretavano guardie e prigionieri in un carcere simulato). Il risultato è un’interpretazione profondamente disturbante da parte di tutti gli attori e, in particolare, dei due superbi protagonisti, Christian Friedel e Sandra Hüller, che trattengono sotto la superficie di un’apparente normalità gli scatti ossessivi di menti dissociate (esemplare la circolare di lui sul divieto di cogliere i lillà posti a “decoro” del campo o le minacce di morte sibilate da lei a chi le serve la colazione).
“La zona d’interesse” rimanda il malessere che ha sempre provocato la visione di un Hitler che gioca con i suoi cani o accarezza sorridendo un bambino in certi filmati documentari, il vedere simile ad un qualunque uomo l’incarnazione del male assoluto.
Sapendo ciò che sappiamo di ciò che accade al di là del muro, l’amore per gli animali di Rudolf o quello di Hedwig per i fiori e le piante, le loro risate, i loro gesti di tenerezza verso i figli, tutto appare grottesco e disumano.
Una riflessione che necessariamente si allarga, nello spiazzante finale, fino a comprendere la nostra stessa indifferenza contemporanea, la nostra assurda assuefazione al dolore, l’abitudine che appiattisce anche le esperienze e le emozioni più atroci.
“La zona d’interesse” riesce a provocare disgusto, bruciante imbarazzo, profonda ripugnanza, senza mai una scena di violenza esplicita, unicamente mostrando quanto l’efficienza possa diventare mostruosa e la quotidianità crudele e, mentre gli Höss vivono nel loro sogno assurdo, ci permette di risvegliarci dal sonno dell’assuefazione, annaspando come dopo un incubo che lascia a lungo turbati.
Camilla Lavazza
La scheda del film
Titolo originale: The Zone of Interest
Regia e sceneggiatura Jonathan Glazer
Basato sul romanzo di Martin Amis
Personaggi e interpreti
Rudolf Höss: Christian Friedel
Hedwig Höss: Sandra Hüller
Claus Höss: Johann Karthaus
Hans Höss: Luis Noah Witte
Inge-Brigit Höss: Nele Ahrensmeier
Heideraud Höss: Lilli Falk
Annagret Höss: Anastazja Drobniak; Cecylia Pękala; Kalman Wilson
Aleksandra Bystroń- Kołodziejczyk: Julia Polaczek
Linna Hensel: Imogen Kogge
Elfryda: Medusa Knopf Aniela: Zuzanna Kobiela
Marta: Martyna Poznańska Sophie: Stephanie Petrowitz
Schwarzer: Max Beck Bronek: Andrey Isaev
Fotografia Łukasz Żal Scenografia Chris Oddy Costumi Małgorzata Karpiuk Montaggio Paul Watts Musica Mica Levi Supervisione musicale Bridget Samuels Casting Simone Bär Supervisione effetti visivi Guillame Ménard
Supervisione post-produzione Richard Lloyd Produttori Jim Wilson, Ewa Puszczyńska
Produttori esecutivi Reno Antoniades, Len Blavatnik, Danny Cohen, Tessa Ross
Ollie Madden, Daniel Battsek, David Kimbang
Durata 105 minuti
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