In programmazione nelle sale
Il film è in programmazione nelle multisale King di Lonato e Oz di Brescia fino a mercoledì 5 febbraio.
Trama
La routine di Romy, potente CEO di un’azienda che produce robot per l’automazione nella logistica, viene sconvolta dall’arrivo del giovane stagista Samuel che la attrae con le sue maniere arroganti e sfrontate, coinvolgendola in un gioco erotico alla scoperta delle sue più segrete ed inconfessabili fantasie, fino a rischiare di mettere a repentaglio famiglia e carriera…
Critica
Una battuta, che quasi sfugge, gettata così, di fretta, dal marito della protagonista, regista teatrale, collega idealmente Babygirl ad un singolarissimo dramma di Ibsen, quell’Hedda Gabler di cui lui sta mettendo in scena la sua versione (ricordiamo che la regista Halina Reijn ha lei stessa interpretato questa parte a teatro) in cui possiamo leggere un’ispirazione per il personaggio di Romy, donna insoddisfatta, rinchiusa nel suo ruolo di manager, moglie e madre perfetta.
Nicole Kidman è immensa nella parte ed ha ben meritato la Coppa Volpi a Venezia per l’aver messo a nudo ogni fragilità, ogni paura, ogni pulsione del personaggio; il suo coraggio e la sua convinzione sostengono anche le scene più scabrose ed imbarazzanti, dal deludente sesso con il coniuge (bravo Banderas a tenersi volutamente sottotono) in cui finge il piacere, per poi cercarlo da sola davanti ad un video porno, alle sedute di botox criticate da chi le sta accanto (“Sembri un pesce morto”) che non possono che ricordare la passata esperienza personale della star Kidman con la chirurgia estetica, che aveva rischiato di deturparne la bellezza.
Una bellezza segnata dall’età ma ancora abbagliante, che mostra generosamente in più di una scena intima, senza sembrare mai goffa accanto ad un ragazzo che ha metà dei suoi anni (Harris Dickinson, classe 1996).
Dobbiamo quindi guardare ad Ibsen e alle sue donne tormentate, anticonformiste, nevrotiche, alla ricerca di una libertà contro le costrizioni borghesi, per comprendere Romy nella sua consapevolezza di “non essere normale” (ipotizzando di sapere cosa sia questa sfuggente “normalità”), nel suo essere divisa tra l’apparenza di donna di potere e di controllo e l’inconfessabile desiderio di essere dominata, di trovare qualcuno che le dica cosa fare e con cui lasciarsi andare.
Niente a che vedere con la Meredith di Demi Moore in Rivelazioni di Barry Levinson (1994) che, in quanto Capo seduceva col ricatto un sottoposto. Qui è subito chiaro che, nel gioco del dare e togliere potere, è lui che conduce, seppure a tratti appaia improvvisare, inebriato dal suo stesso ascendente su di lei.
Romy, prima di incontrare Samuel, è un automa, come i prodotti della sua azienda, non a caso la macchina da presa si sofferma in inquadrature ipnotiche dei robottini che si spostano, perfetti ed instancabili, sulle linee di produzione.
Affetta da dipendenza dal lavoro, dal cellulare (che non lascia nemmeno di notte, tanto da tenerlo appoggiato accanto a sé sul materasso), smaniosa di sembrare perfetta, con una famiglia ideale e politically correct (con tanto di figlia omosessuale), è lacerata tra la smania di perfezione e l’insoddisfazione che diviene sempre più rabbiosa, finché non deflagra in una passione puramente erotica e kinky in cui il ribaltamento trasgressivo dei ruoli la seduce e la ossessiona.
Il Samuel di Harris Dickinson è urticante nella sua spocchia giovanile, eppure funzionale ad un rapporto che nasce come sadomasochistico fin dal primo sguardo, con lui che addomestica un cane rabbioso che sta per aggredirla per strada, e lei che palesemente desidera essere al posto dell’animale.
La colonna sonora di Cristóbal Tapia de Veer accompagna le scene con un mix di voci ritmicamente ansimanti e sensuali, una colonna sonora che resta particolarmente impressa per la sua raffinatezza ed efficacia, mentre le inquadrature insistono sulla verticalità dell’architettura cittadina e degli interni, in cui svettano alberi di Natale che non hanno nulla di festoso ma sembrano piuttosto evidenziare la solitudine delle persone.
L’amicizia appare infatti del tutto assente dalla vita dei personaggi, sostituita da rapporti di lavoro, in cui tutto è negoziabile ed utilitaristico (vedi il personaggio dell’assistente che pretende la promozione), in cui ciascuno deve mantenere il proprio ruolo, almeno in apparenza.
Babygirl ci interroga sui rapporti tra potere, ipocrisia, incomunicabilità e necessità di autenticità e, come per l’Hedda di Ibsen, sulle conseguenze di una legittima ricerca del piacere che non può che essere egoistica, non badando alle conseguenze delle proprie azioni, ma senza il giudizio moralistico che farebbe risolvere la sceneggiatura in dramma.
Il valore aggiunto del film è sicuramente la coraggiosissima interpretazione della Kidman, quel suo affidarsi senza filtri, nella rappresentazione sfumata delle sue due personalità, quella pubblica (che mantiene anche in famiglia), iper-controllata, e quella intima, timida, quasi adolescenziale. L’Alice di Eyes Wide Shut forse ha infine incontrato il suo misterioso uomo del sogno.
Camilla Lavazza
La scheda del film
Regia e sceneggiatura Halina Reijn
Interpreti e personaggi
- Nicole Kidman: Romy
- Harris Dickinson: Samuel
- Antonio Banderas: Jacob
- Sophie Wilde: Esmé
- Esther McGregor: Isabel
- Vaughan Reilly: Nora
- Victor Slezak: sig. Missel
- Anoop Desai: Robert
- Bartley Booz: Tom
- Maxwell Whittington-Cooper: Josh
- Leslie Silva: Hazel
- Dolly Wells: psicologo
- Fotografia Jasper Wolf
Montaggio Matthew Hannam
Musica Cristóbal Tapia de Veer
Scenografia Stephen H. Carter
Costumi Kurt Swanson, Bart Mueller
Produttori Halina Reijn, David Hinojosa, Julia Oh
Produttori esecutivi Zach Nutman, Christine D’Souza Gelb
V.M. 14
Durata 114 minuti
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